Soporifero fino alla letargia lo spettacolo di Giancarlo Giannini che ha inaugurato la stagione del Teatro V. Emanuele di Messina. Un deja vu che ha  debuttato l’anno scorso a Capo d’Orlando  e che il pubblico messinese non meritava. Giannini, il grande Giannini che con il cinema della Wertmuller ci ha incantato, è apparso senza carisma, ottima dizione da fine dicitore ma nessuna passione, nessun guizzo trascinante, bravo per insegnare al Centro sperimentale di cinematografia di Roma ma inadeguato a sostenere quasi due ore di spettacolo; aiutato, ma non troppo, da un terzetto di musicisti, una chitarra (ottima), una contrabbasso (in fase terminale, il cui gruppo di corde  si è staccato dal supporto con uno scatto secco) e un (troppo aggressivo) sassofono.

Ha recitato l’Amore e la Morte, zompando da Dante a Leopardi, ripiombando nel Trecento con Petrarca dopo avere visitato Shakespeare, Neruda, Prevert, in una sorta di “mischia francesca”, senza capo né coda.
Segnale, al contempo di infinita noia e smisurata maleducazione, i cinque telefonini consultati da cinque incivili spettatori. Ah! Tony Servillo, che nostalgia di te!.