All’indomani della sentenza di condanna di Francantonio Genovese, stangato dai giudici della Prima sezione penale del Tribunale di Messina, l’opinione pubblica s’interroga sulla congruità della pena. Undici anni fanno rabbrividire rispetto a sentenze per le quali di mezzo ci sono stati i morti.

Senza andare troppo lontano nello spazio e nel tempo, pochi mesi addietro a Messina è arrivata la sentenza per l’omicidio di Lorena Mangano, la giovane studentessa di Capo d’Orlando morta per le conseguenze di un incidente stradale in via Garibaldi. L’assassino, il finanziere Gaetano Forestieri, è stato condannato a 11 anni di reclusione perché ritenuto responsabile della morte della povera Lorena.

Come si ricorderà, l’omicida che ha investito l’automobile condotta dalla ragazza stava gareggiando con Giovanni Gugliandolo, in via Garibaldi, anche lui condannato a 7 anni. La congruità della pena e la celebrazione di un giusto processo devono rappresentare la base fondante di uno Stato di diritto. La pena comminata a Francantonio Genovese e il clima venutosi a creare intorno al processo “Corsi d’Oro 2”, hanno disorientato l’opinione pubblica.

Si dice che le sentenze vadano rispettate, ma come si fa ad accettare che una persona qualunque, non parliamo qui di Genovese, possa accettare una condanna incongrua, almeno se paragonata a chi ha ricevuto lo stesso trattamento avendo “soppresso” una vita? La fiducia nella Giustizia, quella con la G maiuscola, deve comunque risiedere nella consapevolezza che il nostro ordinamento prevede tre gradi di giudizio, cui se ne aggiunge un quarto, ovvero quello della Corte di Giustizia europea.

Non entriamo nel merito del caso-Genovese, perché non abbiamo gli elementi per poterlo fare, ma all’indomani della sentenza di condanna del “politico”, non possiamo che raccogliere il sentire comune di quanti riportano la questione su un piano prettamente quantistico. E 11 anni, rispetto al reato contestato, è sembrata agli occhi della gente una punizione troppo severa.

Davide Gambale