Opinioni
Oligarchia, il potere nel voto
Il popolo deve esercitare la sovranità, nessuna deroga alla democrazia dei competenti
- 17/11/2016Maurizio Ballistreri
Le polemiche contro il “popolo che non può decidere su tutto”, come nel caso della Brexit, secondo lo schema della “democrazia dei competenti”; l’esigenza di velocizzare i processi delle decisioni pubbliche, saltando la mediazione politica e sociale; il giustificazionismo (come nel caso di Eugenio Scalfari) verso la trasformazione delle democrazie fondate sul principio di sovranità popolare, che si esplica in primo luogo sul diritto dei cittadini di scegliersi i rappresentanti in Parlamento, in moderne oligarchie; le parole dell’ex presidente della Repubblica Giorgio Napolitano dopo l’elezione di Trump alla Casa Bianca, sul “voto che è diventato un problema”, richiamano alla memoria, tra l’altro, alcuni aspetti programmatici della Falange spagnola, che portò al potere il caudillo Francisco Franco, tra cui: “il popolo partecipa al governo in modo organico e gerarchico, non per mezzo della democrazia degenerata”.
“Postdemocrazia” è il titolo di un libro di Crouch del 2003, in cui l’autorevole sociologo e politologo, già docente alla London School of Economics, ha prospettato una severa analisi circa il tramonto della democrazia nei paesi occidentali, con l’instaurazione di una forma moderna di oligarchia. In essa le forme sono salve perché la democrazia non viene cancellata ma svuotata di contenuti, passando dalla problematica del government a quella della governance: “Mentre le forme della democrazia rimangono pienamente in vigore e oggi in qualche misura sono anche rafforzate, la politica e i governi cedono progressivamente terreno cadendo in mano alle élite privilegiate, come accadeva tipicamente prima dell’avvento della fase democratica”.
Sembra avverarsi quanto sostenuto nel Rapporto della Trilateral Commission su “la crisi della democrazia” del 1975, in cui si sosteneva l’esigenza di verticalizzare il processo decisionale, semplificandolo. Siamo, invero, al tramonto degli strumenti di controllo e garanzia emersi nel corso del laboratorio politico del “Secolo breve”, tra la Rivoluzione d’Ottobre del 1917 e il crollo del Muro di Berlino del 1989. I poteri decisionali si sono spostati verso i governi, caratterizzati da forti elementi leaderistici, sganciati dal rapporto con le assemblee parlamentari; e gli stessi esecutivi nazionali, d’altronde, sono diventati subalterni ad organismi sovranazionali e tecnocratici che non hanno alcuna legittimazione popolare. Inoltre, la comunità politica è divenuta autoreferenziale, preclusa all’accesso dei cittadini se non per cooptazione: il partito azienda, quello di plastica e il partito del Web, il leaderismo e il populismo sono gli elementi fondanti di un regime postdemocratico, tutti visibilmente presenti in Italia.
Già, basta guardare alla cosiddetta riforma costituzionale in combinato disposto con l’”Italicum”, con metà del Parlamento e l’intero Senato di nominati, un modello direttoriale per le istituzioni italiane, per rendersi conto della fondatezza di tale assunto. Nella “Riforma Renzi-Boschi” troviamo le stesse motivazioni che ispirarono la banca d’affari statunitense JP Morgan a presentare un documento nel maggio 2013, secondo cui: “I sistemi politici dei paesi europei del Sud e in particolare le loro costituzioni, adottate in seguito alla caduta del fascismo, presentano caratteristiche inadatte a favorire l’integrazione.
C’è forte influenza delle idee socialiste”. E, tra gli aspetti problematici citati dalla banca (considerata dal governo Usa responsabile della crisi dei mutui subprime), la tutela garantita ai diritti dei lavoratori: e sì, gli stessi echi della riforma renziana della Costituzione, del Job Act e del “prestito pensionistico”.